Accade ogni anno che nell’ultima decade del mese di luglio, nell’ormai remoto rurale di Lubrichi, in questa provincia reggina, risuoni il canto degli avi e si innalzi l’incenso fragrante dell’agiografia tutta calabra, meglio, di un santo, in particolare, che coniuga il nostro sostare tra la progenie greco – bizantina. E nel χώριον di creta rossa, nel bel “giardino” dell’antica Roubiklon “vocem clamant” il fratello maggiore, il “loro” Fantino.
Fantino il Giovane – ó νέος , il “Nuovo”, come da indicazione riportata nel Sinassario, il libro liturgico in cui sono raccolte le vite abbreviate dei santi commemorati giorno per giorno nell’ufficiatura bizantina – è splendore tra i monaci calabro- bizantini che adornarono la terra di Calabria fino alla sua latinizzazione ad opera dei Normanni, intorno all’anno 1080. Prima di questa data, la terra degli antichi Italici accoglieva perfino i riti greco – bizantini quasi speculum a quelli cattolico-latini.
Di Fantino il Giovane imprecise e poche furono le notizie fino agli inizi del ‘900, sebbene in Lubrichi venerato da secoli immemori ed il borgo fosse sotto suo patrocinio. Una parva traccia la si rinvenne nell’edizione del Sinassario del 1902, curata dal bollandista Hippolyte Delehaye, nella quale si legge, sotto la data del 14 novembre, che Fantino, muovendo dalla sua terra d’origine verso Tessalonica, sua meta di sepoltura, con i suoi compagni Vitale e Niceforo fece tappa anche ad Atene per omaggiare il tempio della Theotokos, la Madre di Dio (l’antico Partenone, divenuto al tempo chiesa cattedrale della città) e venerare la reliquia di Sant’Andrea.
La documentazione locale e puntuale si ha nel luglio 1925, allorché il canonico Carmelo Formica, arciprete curato del tempo, in occasione del 25mo anniversario della sua ordinazione sacerdotale diede alle stampe un “libriccino”, il tramandato “Culto e storia di S. Fantino Confessore – Protettore di Lubrichi (RC)” con il chiaro e “precipuo pensiero di sollevare il culto e la devozione del Santo Patrono”. È lo stesso curato parrocchiale in Lubrichi ad ammettere “ma di S. Fantino, tranne le poche notizie che si trovano nel Martirologio Romano, non si sapeva nulla: né da chi, né dove si avesse avuto i natali, né in quale epoca fosse vissuto”.
Merito del curato fu quello di zelare e spendere ogni energia per la ricerca storica e documentale. Sempre nella Prefazione all’opera egli stesso ammette che “e siccome S. Fantino apparteneva all’ordine di S. Basilio Magno, i cui Monasteri, con l’invasione dei Saraceni, andarono completamente distrutti in questa nostra contrada, mi rivolsi per avere notizie al superiore dei Basiliani a Grottaferrata. E così potei avere delle notizie più particolareggiate”. Fu lo scambio epistolare con il monaco basiliano D. Sofronio Gassisi su incarico dell’abate che fugò il dubbio: Fantino venerato in Lubrichi era anche detto “juniore ed in qualche calendario anche Taumaturgo, titolo che più comunemente si applica al primo” (per “al primo” si fa chiaro riferimento al Fantino di Taureana, detto anche “il vecchio” o “il Cavallaro”, il quale mai abbracciò la vita monastica).
Alla lettera di risposta del superiore dei Basiliani – datata 4 settembre 1907 – il Gassisi allegò “un compendio versione dal greco, tolta dalla collezione delle Vite dei Santi del Bollando, che riporta anche il testo greco, e ne commenta il contenuto”.
“Hic e regione Calabrorum genus traxit, Georgii ac Briaenes fiulius” (Nacque nella regione dei Calabri, figlio di Giorgio e di Vriena). Il breve compendio così ha inizio e prosegue con altre poche notizie poco particolareggiate.
È negli anni ’90 del secolo scorso che la studiosa Enrica Follieri ne denoterà maggiormente il “bios”, riferendosi al codice “Mosquensis” 478 (così denominato per esser stato rinvenuto a Mosca) e, mediante studi più approfonditi, editerà nel 1993 “La Vita di San Fantino il Giovane. Introduzione, testo greco, traduzione, commentario e indici” per Subsidia hagiographica. Cominceranno ad aversi notizie ulteriori, a coronamento dei precedenti “desiderata” di inizio secolo. Ancora notizie si rinvengono nella “Vita Nili”, il bios su San Nilo da Rossano, seguace di Fantino ed in rapporto di filiale amorevolezza. Si è così potuta ricostruire la vita del Santo “juniore”.
San Fantino il Giovane nacque in una località della Calabria “vicinissima alla Sicilia” nel 927 da Giorgio e Vriena, ricchi possidenti dotati di grandi virtù. Secondo la consuetudine del tempo il bambino fu offerto al Signore nella chiesa di San Fantino il Vecchio e all’età di otto anni fu affidato a Sant’Elia lo Speleota nella grotta di Melicuccà per essere avviato alla vita monastica. Dopo aver seguito per cinque anni gli insegnamenti di Sant’Elia, ricevette da lui l’abito dei novizi e rimase a Melicuccà per vent’anni, fino alla morte del Santo, esercitando prima l’umile incarico di cuoco e poi quello della custodia della chiesa. Trasferitosi nella regione del Mercurion trascorse diciotto anni di vita eremitica, dedicandosi alla preghiera e alla penitenza e lottando contro le frequenti insidie del demonio. Dopo il lungo tempo passato in solitudine ritornò alla vita cenobitica e fondò un monastero femminile nel quale furono accolte la madre e la sorella Caterina. Seguì la fondazione di monasteri maschili, in uno dei quali trovarono accoglienza il padre e i fratelli Luca e Cosma. Sentendo vivo il desiderio di un ritorno alla vita eremitica lasciò il fratello Luca la direzione del monastero più grande e si ritirò in un luogo solitario e selvaggio. Dalla nuova dimora di tanto in tanto si recava a visitare i nuovi discepoli, fra i quali vi erano i monaci Giovanni, Zaccaria, Nicodemo e Nilo. Ripresa la vita cenobitica il Santo continuò a vivere nello spirito della penitenza. Trascorreva lungo tempo senza prendere cibo ed era spesso in estasi. Ad opera del Santo avvennero alcuni fatti prodigiosi. Un’orsa che devastava gli alveari del monastero fu allontanata definitivamente col solo cenno della mano. All’invocazione del suo nome zampillò d’improvviso un getto d’acqua abbondantissimo per dissetare dei monaci, i quali affaticati andavano in cerca di alcune mule che si erano allontanate dal pascolo.
Una notte, dopo la recita dell’ufficio, ebbe una terribile visione che non volle comunicare ai suoi monaci perché erano “cose assolutamente indescrivibili”.
Nel monastero San Fantino fu visitato da San Nilo, il quale raccontò una visione di angeli risplendenti e di demoni, “fitti più di sciami di api“, che lo riempirono “di timore e di orrore“. Infine, trasportato “in una regione risplendente di luce“, sentì “echeggiare un inno ineffabile, incessante, di cui non ci si può saziare” e vide sfavillare “un fuoco straordinario“, che lo riempì “di divino furore“. Seguì la vista dell’inferno, “luogo pieno di fumo maleodorante, privo di luce“, popolato di dannati che “sospiravano dal profondo con infiniti lamenti“. Trasportato poi “in un luogo splendente ed eterno” ebbe la visione dei beati e l’incontro con i genitori.
San Fantino, avendo sentito che San Nilo era affetto da un grave male alla gola, si recò nella sua grotta per visitarlo e lo persuase a seguirlo nel monastero per prestargli le cure necessarie. Un altro giorno San Nilo, essendo molto sofferente per le percosse che gli erano state inflitte dal demonio e che gli avevano procurato le paralisi del lato destro del corpo, fu invitato da San Fantino a leggere durante la veglia notturna che precedeva la festa degli apostoli Pietro e Paolo l’elogio in versi scritto in loro onore da San Giovanni Damasceno. Durante la lettura il malore andò scemando a poco a poco fino a scomparire.
Un giorno San Fantino comunicò a San Nilo una sua visione. Aveva visto i monasteri in rovina trasformati in “luride abitazioni di giumenti” e bruciati dal fuoco e i libri gettati nell’acqua e resi inservibili. Il Santo intravide in quella visione la futura sorte dei monasteri che avrebbero subito la distruzione non solo per le incursioni dei Saraceni, ma anche per “il generale decadimento della virtù ed il rilassamento della disciplina“. Il riferimento storico della predizione di Fantino si verificò nel 951 quando Hasan – Ibn Alì assalì città costiere della Calabria causando distruzioni e stragi.
Il Santo, rispondendo ad una ispirazione che lo spingeva a lasciare la Calabria, all’età di sessant’anni con i discepoli Vitale e Niceforo s’imbarcò alla volta della Grecia. Durante il viaggio, venuta a mancare l’acqua per i passeggeri, il Santo fece riempire tutti i recipienti d’acqua marina, che a un segno di Croce fu trasformata in acqua potabile. Raggiunta Corinto, si recò ad Atene per visitare il tempio della Madre di Dio. Si mosse quindi verso Larissa, dove dimorò a lungo presso il sepolcro del martire Sant’Achille. Trasferitosi a Tessalonica abitò per quattro mesi nel monastero del santo martire Mena. Lasciato quel cenobio andò ad abitare fuori le mura della città.
A Tessalonica il Santo, dopo aver recitato “la straordinaria preghiera di Filippo di Agira“, guarì prodigiosamente un malato di nome Antipa. Un giorno, mentre si recava al tempio della santa martire Anisia, s’imbattè nei santi monaci dell’Athos Atanasio e Paolo, che illuminavano “le solitudini come un faro” e rese gloria a Dio per quell’incontro. A Tessalonica indusse pure al pentimento un giudice che angariava la popolazione per avidità del denaro e un personaggio che occupava la carica più alta della città e compiva dei soprusi nei confronti di una vedova indifesa e di un orfano.
San Fantino operò a Tessalonica alcuni prodigi e grandi opere di carità. Morì intorno all’anno 1000, dopo avere abbracciato e benedetto i monaci che lo assistevano e fu sepolto con grande solennità nel luogo da lui prescelto. La biografia del Santo si chiude con una serie di miracoli da lui compiuti dopo la morte.
È ancora interessante tornare un attimo al volumetto del Formica, in precedenza richiamato. Ancora nella Prefazione si rivengono notizie certe circa la diffusione del culto ad opera del curato: “Allora feci eseguire dallo scultore prof. Guacci di Lecce una nuova statua sul tipo della vecchia, già consunta; sebbene l’abbigliamento non rispondesse a verità, come era quello dei Basiliani. Feci pure eseguire dalla Ditta Berterelli di Milano una base per la processione. L’ingresso della nuova statua, che fu benedetta nella vicina Chiesetta di Calabretto, ebbe luogo in modo solenne ed entusiastico il 1° Agosto 1908. E fu quello un giorno di trionfo e di fede”. Non avendo rinvenuto officio liturgico e/o preghiere al Santo, traendo dal compendio pochi cenni biografici, il curato volle, inoltre, scrivere preci e novenario. “Inoltre pensai di rivolgere invito a miei maestri ed amici carissimi e rispettabili, perché scrivessero gl’inni. Essi tennero gentilmente l’invito e, con grande amore, composero inni bellissimi e traboccanti d’affetto”. I tre inni che il popolo lubrichese fa risuonare nei dì di luglio: “Brilla di luce candida” del Can. Prof. D. Giovanni Sposato, allora Arciprete Curato della Cattedrale di Oppido Mamertina; “Salvete, o sacri ruderi” del Ca. Prof. D. Giuseppe Leuzzi di Delianuova; “Salve di nostra terra” del Dott. Vincenzo Zillini di Lubrichi, musicato dal M. Achille Longo.
Al Formica si devono anche le istituzioni della Schola Cantorum San Fantino, coi fanciulli vestiti con la stessa “divisa” del Santo, intero organico maschile e la Pia Aggregazione di San Fantino Confessore, in cui vi partecipavano fanciulli di ambo i sessi fino ai 16 anni.
Per un’antica consuetudine Lubrichi celebra il suo Santo Patrono ogni anno il 31 luglio con processione dell’effige conservata presso la Chiesa Madre del paese.