Mi risulta congeniale sondare le pagine della seconda parte dell’avventura sull’eroina sui generis, mediterranea e cosmopolita al contempo, Metide, associandola iusta causa ad un convincimento benevolo che precede di secoli l’intuizione stessa del genere narrativo “fantastico” e fatto proprio dal maestro del romanzo storico e del teatro romantico, lo scrittore francese Alexandre Dumas (padre): “L’immaginazione – sostiene – ha il volo dell’angelo e del lampo: varca i mari dove noi rischiammo di naufragare, le tenebre in cui si perdettero le nostre illusioni, i pregiudizi in cui fu sommersa la nostra felicità”.
L’ assunto credo si armonizzi con estrema plasticità e dovizia di particolari al più genuino intendimento che la nostra immaginifica Marzia ebbe a manifestare ne “La prova dei quattro” (“Ho cominciato a scrivere questa storia con in mente un’idea ben precisa: creare un universo fantastico, che racchiudesse in sé i tratti misteriosi di una terra antica e magnifica, la Calabria…”) e che, fugato ogni dubbio di sorta, viene a ricomporsi spasmodicamente in questo secondo volume di ulteriore compimento della saga: “Sono stata felice di scoprire – professa nella sua Nota l’autrice – che la mia terra, adorata eppur complicata continua a regalarmi ispirazioni, nonostante tutti gli ostacoli”.
Il fil rouge che pervade tutto il primo volume attraversa in continuità anche il secondo, apoteosi confermativa di una ben specifica “nobilitazione ancestrale” del legame indissolubile della nostra Marzia con la propria terra d’origine quale compresente e sempre attuale Magna Grecia, la stessa che in onomastica e toponomastica non ha abbandonato del tutto nemmeno questo proseguo di narrazione.
Mi sia consentito sostenere un “nemmeno” affermativo, dal momento che il “caro lettore” onnipresente ad entrambi i volumi noterà come con assoluta elasticità, ma senza contrapposizione alcuna, questa seconda avventura tutta è intrisa e con più peculiarità rispetto alla prima parte di scenari tipicamente medioevali. Basti pensare per un attimo che l’utilizzo del falco Niger, affidato da Mikel ad un Evander disorientato dalla scomparsa della giovane candidata al Vertice, richiama quasi intenzionalmente la dominazione svevo – normanna accampata nella Calabria dell’XI secolo. Miniature del tempo vogliono un Ruggero d’Altavilla dedito nell’uso della falconeria. Non meno le pennellate che descrivono con minuzia i luoghi- rifugio dei Negromanti o le tinte fosche che li accompagnano. Ancora, l’avvincente sperimentazione stessa di pozioni straordinarie ed intrugli nello pseudo- laboratorio del torvo Consigliere Danut confermano una pratica usuale negli ambienti dell’età di mezzo quanto il continuo richiamo alla “negromanzia”, forma di divinazione intuitiva presentata dapprima quale forza manipolativa del “Grande Equilibrio”, scoprendosi in corso di narrazione come già in uso nella primitiva Tribù. Da non sottovalutare questo passaggio, dal momento che, potremmo dire, sconfessa in parte la convinta divisione che si era posta a suggello, nel primo volume, tra i Magi Guardiani ed i ribelli Negromanti, capitanati da un Boian denunciato più umano che sospetto.
Riconfermato, invece, è il pieno convincimento della mia primaria intuizione, quello che ridefinisce la narrazione di Marzia in un “fantasy psicologico”, maggiormente in questo sequel, nel quale ad un andamento “epidittico – descrittivo” con qualche elemento d’analisi interiore del primo volume sovrasta un andamento “endogeno – emozionale” del secondo. Alla necessitata “prova” primordiale, linea -guida dell’intera narrazione, infatti, si annoda un nuovo fattore emancipativo, esplicitato in nuce già nello stesso sottotitolo, o meglio, nel nuovo titolo della triade di volumi: “risveglio”. Tale lessema denota e conferma quanto pocanzi posto alla nostra riflessione, radicandosi in un valido sinonimo d’eccellenza e nuovo termine non estraneo al corpus, quello di “scoperta”, nell’esigente passaggio ad un ulteriore livello meta- narrativo, frammentato ed allo stesso tempo ricomposto nel diritto – dovere di “auto-comprendersi” per giungere ad una catarsi evolutiva ed insieme volitiva del personaggio principale, Metide, e non meno degli accompagnatori agenti la trama. L’ attuale dimensione nella quale si perviene, in sé autorale – se vogliamo – e narrativa è allo stesso modo esemplare e necessaria: è l’ancorarsi alla conoscenza, nel volume definita SAPIENZA, quale volano esistenziale e meta ultima da ambire. A tal fine si faccia nostro il dialogo tra la novella comparsa di Dragomir, Generale dei Negromanti, il quale esplicitamente e senza mezze misure, su una nave emblema virtuale del trapasso dalla prova narrativa alla prova esistenziale, porge alla novizia Metide una domanda- chiave: “Non desiderate capire chi siete davvero?”. Non meno confermativo il richiamo, forse non intenzionale, ai miti platonici, in particolare nell’esperienza metidea della “Caverna di Kerkutha”, non dissimile a quello filosofico- ellenico, in cui l’idea stessa di un “daimon” rivelatore all’interno della spelonca sottende chiavi di lettura ontologiche ed al contempo gnoseologiche proprie del pensiero di Platone, in un ideale di liberazione dell’uomo dalle catene della sua esperienza limitata e pregiudizievole fino al raggiungimento della pura conoscenza della realtà e delle sue forme.
Quest’ultimo risultato è insito perfino nello sviluppo relazionale tra la stessa Metide e Dragomir, nel quale, alla pretesa primordiale di “alterità” rispetto alla novizia della Tribù, ben presto si paleserà invece un affrancato “alter ego” della stessa, fascinosa immagine questa di intellettuale rivalsa, che pone nelle diversificazioni di tratti e sentori la concezione di una comune umanità indiscutibile sotto qualsiasi punto di vista.
Dunque, ad una narrazione più scorrevole si affianca, in questo volume, un più concreto esperimento di analisi psicologica, se non proprio di auto- coscienza.
Il senso di meraviglia, comune ad entrambi i corpus delineativi della saga, passa da “ordinario – strutturale” a “particolare – intuitivo”. D’altronde, Marzia sarà stata, per così dire, “influenzata” dal britannico John Ronald Tolkien, il famoso autore di un’altra saga fantasy, “Il Signore degli Anelli”, con il quale asserto mi aggrada concludere queste mie riflessioni. Diceva egli infatti:
“La fantasia è una naturale attività umana, la quale certamente non distrugge e neppure reca offesa alla Ragione, né smussa l’appetito per la verità scientifica, di cui non ottunde la percezione. Al contrario: più acuta e chiara è la ragione, migliori fantasie produrrà”.
Per il bene di noi tutti, allora, “fantastica” ancora cara Marzia!